Niente di nuovo sul fronte occidentale – Erich Maria Remarque
“Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra.”“Abbiamo ricevuto il cambio ieri e ora siamo a riposo, nove chilometri dietro il fronte. Abbiamo la pancia piena di fagioli bianchi con carne di manzo, e ci sentiamo sazi e soddisfatti.”
“Per il soldato, lo stomaco e la digestione sono realtà a cui pensa più di quanto facciano altri esseri umani. Tre quarti del suo vocabolario sono tratti da lì, e la massima gioia come la disperazione più profonda vi trovano la loro espressione più precisa.”
“Il sordo brontolio del fronte ci arriva come un temporale lontanissimo. Il volo dei calabroni basta a coprirlo. E intorno a noi il prato fiorito. I fili d’erba si piegano all’aria mite e calda della tarda estate; leggiamo lettere e giornali e fumiamo beatamente; ci togliamo i berretti e li appoggiamo accanto a noi; il vento gioca con i nostri capelli come con la nostra parola e con i nostri pensieri.”
“Facile sarebbe stato davvero che oggi non sedessimo in queste cassettine: l’abbiamo scampata per poco. E perciò ogni sensazione è nuova e forte: i rossi papaveri e il buon cibo, le sigarette e la brezza d’estate.”
“…a quell’epoca persino i genitori avevano la parola vigliacco a portata di mano. La gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere.”
“Sotto la pelle la vita non pulsa più, respinta fino ai margini del corpo; la morte si fa strada dall’interno, e domina già gli occhi. Eccolo là, il nostro compagno Kemmerich, che fino a poco fa cucinava con noi carne di cavallo e gironzolava per le trincee; è ancora lui, eppure non è già più lui, la sua figura si è sfumata, è diventata incerta come una lastra su cui si siano impresse due fotografie. Persino la sua voce suona spenta come cenere.”
“Gioventù di ferro. Gioventù! Nessuno di noi ha più di vent’anni. Ma giovani? La nostra gioventù se n’è andata da un pezzo. Noi siamo gente vecchia.”
“Da quando siamo qui, la nostra vita di prima è tagliata fuori, senza alcuna colpa da parte nostra. Talvolta cerchiamo di farci un’idea generale, di darci una spiegazione, ma senza riuscirci.”
“Kantorek direbbe che eravamo sulla soglia dell’esistenza; e in fondo è vero. Non avevamo ancora messo radici; la guerra, come un’inondazione, ci ha spazzati via.”
“Ci eravamo arruolati pieni di entusiasmo e di buona volontà: non mancò alcuno sforzo per spegnere in noi l’uno e l’altra.”
“Noi eseguivamo esattamente perché il comando è comando e deve essere eseguito.”
“Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi; e fu un bene: erano proprio quelle le qualità che ci mancavano.”
“Ma importante fu che tra noi venne in tal modo sviluppandosi un forte sentimento di solidarietà, il quale poi al fronte si innalzò a quanto di meglio abbia prodotto la guerra: il cameratismo.”
“Accenno di si, e penso a che cosa potrei dire ancora per rianimarlo un poco. Le sue labbra sono slavate, la bocca è diventata più grande, i denti sporgono, come fossero di gesso. La carne si va disfacendo, la fronte sembra più ampia, gli zigomi sono in fuori. Lo scheletro affiora a poco a poco, gli occhi si infossano. Tra un paio d’ore sarà finita.”
“Mi guardo gli scarponi, grandi e goffi, in cui sono stati infilati malamente i pantaloni: in quei tubi si ha l’aspetto forte e robusto, ma quando al bagno ci spogliamo riveliamo a un tratto la gracilità delle gambe e delle spalle. Allora non siamo più soldati, ma quasi ancora bambini; nessuno ci crederebbe capaci di portare lo zaino. E’ un curioso momento, quando siamo nudi; ritorniamo borghesi e per un istante quasi ci crediamo.”
“La terra è percorsa da fluidi che attraverso le piante dei piedi si trasfondono in me. La notte è carica di elettricità, il brontolio del fronte sembra una lontana musica di tamburi. Le mie membra si muovono snodate, sento i tendini agili nel moto, respiro, soffio, mi scuoto. La notte vive, io vivo. Ho appetito, una fame tremenda che non viene dallo stomaco.”
“O camerate piene di ombra e di tanfo, con le brande di ferro ripiegate, le plance e i bottini allineati sopra, voi pure potete diventare meta di umani desideri! Qui ci apparite come un riflesso favoloso della patria, con il vostro odore misto di cibo stantio, di corpi dormienti, di tabacco e di vestiti.”
“E allora, vedete, il potere dà alla testa; tanto più dà alla testa, quanto meno uno contava da borghese.”
“Tutti acconsentiamo, perché sappiamo bene che in trincea la disciplina di caserma cessa, ma per ricominciare pochi metri dietro il fronte, magari con le maggiori assurdità; saluti, passi di parata, ecc. Questo perché vi è una legge di ferro: il soldato deve avere sempre qualcosa da fare.”
“In realtà non dobbiamo andare in trincea ma soltanto a stendere reticolati; eppure in ogni volto si scorge che ormai siamo al fronte, nel suo territorio.
Non è ancora paura. Chi come noi è andato avanti tante volte ha la pelle dura. Solo le giovani reclute sono inquiete.”
“I nostri volti non sono più pallidi o più accesi del solito, né i tratti sono più tesi o più rilassati; eppure è un’altra cosa. Nel nostro sangue si è formato una specie di contatto elettrico, come allo scatto di una molla. Non sono modi di dire, è un fatto: è il fronte, è la coscienza del fronte che sviluppa questo contatto. Al fischio delle prime granate, al primo strappo dell’aria solcata dalle detonazioni, subito nelle nostre vene, nelle mani, negli occhi è come un’attesa sommessa, un origliare, un essere più svegli, una singolare duttilità dei sensi: all’improvviso tutta la persona si trova in piena efficienza.”
“Per me il fronte è un orribile gorgo. Mentre si è ancora lontani, là dove le acque sono ancora tranquille, già si sente che assorbe, che attira, con una forza lenta, invincibile, che distrugge senza fatica ogni tua resistenza.”
“A nessuno la terra è amica quanto al soldato. Quando vi si aggrappa, lungamente, violentemente; quando con il volto e con il corpo si lascia avvolgere dalla terra nell’angoscia mortale del fuoco, allora essa è il suo unico amico, suo fratello, sua madre; nel silenzio della terra egli soffoca il suo terrore e le sue grida, essa lo accoglie nel suo rifugio, poi lo lascia andare, perché viva e corra per altri dieci secondi, e poi lo abbraccia di nuovo, e spesso per sempre.
Terra, terra, terra.
Terra, con le tue pieghe, con le tue buche, con i tuoi avvallamenti in cui ci si può gettare, sprofondare. Terra, nello spasimo dell’orrore, tra gli spettri dell’annientamento, nell’urlo mortale delle esplosioni, tu ci hai dato l’immenso contraltare della vita riconquistata! La corrente della vita, quasi distrutta, è rifluita da te attraverso le nostre mani, così che noi salvati in te ci siamo sepolti, e nella muta ansia del momento superato ti abbiamo morso con le nostre labbra!”
“Se ci si fosse lasciati guidare dal ragionamento, a quest’ora saremmo un mucchio di carne sparpagliato: è stato l’altro che, oscuramente vigile in noi, ci ha buttati a terra e salvati senza che noi capiamo come. Se questo altro non fosse, da un pezzo, tra le Fiandre e i Vosgi, non vi sarebbero più creature viventi.
Noi partiamo soldati allegri o brontoloni; quando giungiamo nella zona del fuoco siamo diventati una razza belluina.”
“Nebbia e fumo di artiglieria coprono bassi i prati, all’altezza dei nostri petti. Sopra splende la luna. Sulla strada passano altre truppe. Gli elmetti di acciaio brillano con pallidi riflessi nella luce lunare. Le teste e i fucili emergono dalla nebbia; teste chine, armi che ondeggiano.”
“Accanto a noi è distesa una recluta spaurita con i capelli biondi come stoppa. Si stringe la faccia tra le mani, l’elmetto gli è scivolato via. Glielo ripesco e voglio cacciarglielo sulla testa. Il ragazzo mi guarda, respinge l’elmetto e si rannicchia come un bambino sotto il mio braccio, contro il mio petto. Le sue spalle tremano, esili come quelle del povero Kemmerich.”
“Non mi è mai accaduto di udire cavalli gridare, e quasi non ci posso credere; quella che geme laggiù è tutta la miseria del mondo, è la povera creatura martirizzata, un dolore selvaggio, atroce, che ci fa impallidire.”
“Ci sediamo e ci turiamo le orecchie. Ma quell’orribile lamento, quel gemere, quel pianto, penetra dovunque, e si ode sempre.
Tutti abbiamo imparato a sopportare qualcosa: ma qui il sudore ci cola dalla fronte. Vorremmo alzarci e fuggire, non importa dove, solo per non udire più quelle grida. Eppure non sono uomini, ma soltanto cavalli.”
“Proprio all’ultimo istante. Nell’oscurità si scatena un delirio, tutto ondeggia e infuria. Cose nere, più nere della notte, precipitano gigantesche su di noi, passano sopra di noi. Il fuoco delle esplosioni getta sprazzi di luce sul cimitero. Non c’è scampo da nessuna parte. Nel lampeggiare delle granate arrischio un’occhiata ai prati: sembrano un mare in burrasca, le vampe dei colpi saltano su come getti di fontana. E’ escluso che si possa attraversare senza essere colpiti.
Il boschetto scompare, strappato, stravolto, stracciato.”
“Ha la bocca spalancata e urla, ma io non sento nulla: continua a scrollarmi, si avvicina; e in un momento di minor rumore, le sue parole mi raggiungo: Gas! Gas! Gas! Passa la voce!”
“Quei primi momenti con la maschera calata decidono della vita e della morte: sarà impenetrabile? Ho presenti le orribili immagini dell’ospedale: i soldati asfissiati che, soffocando giorno per giorno, vomitano pezzo per pezzo i polmoni bruciati.”
“”Ho la testa che ronza e rimbomba sotto la maschera, pare che debba scoppiare. I polmoni sono affaticati, hanno solo e sempre la medesima aria calda e viziata; le arterie delle tempie si gonfiano, crediamo di soffocare.”
“Aspetto qualche secondo, l’uomo non stramazza al suolo, si guarda intorno e fa qualche passo: vuol dire che il vento ha disperso il gas, che l’aria è libera. Allora rantolando strappo anch’io la maschera e cado lungo disteso; l’aria fluisce in me come una corrente di acqua gelata, gli occhi mi vogliono schizzare fuori dalle orbite, l’onda mi sommerge e per un momento perdo conoscenza.”
“Kat si guarda intorno e mormora: Non sarebbe il caso di prendere una pistola e farlo smettere di soffrire?
Ci sono poche probabilità che il ragazzo possa sopportare il trasporto e in ogni caso non sopravvivrà che pochi giorni. Ma tutto quello che ha sofferto fin qui è nulla rispetto al tempo che gli rimane da passare prima di morire. Ora è intontito, non sente niente, ma fra un’ora sarà un groviglio gemente di insopportabili sofferenze. i giorni che può ancora vivere non saranno per lui che una delirante tortura. E a chi giova che questi giorni li viva o no?”
“Torniamo indietro, silenziosi, in fila indiana. I feriti sono trasportati all’ambulanza. Il mattino è torbido e grigio, i portaferiti corrono qua e là con numeri e foglietti, i feriti si lamentano. Comincia a piovere.”
“Monotoni traballano gli autocarri, monotone si alternano le grida, monotona scende la pioggia. Scorre sulle nostre teste, e lì davanti sulle teste dei morti, e sul corpo della piccola recluta con la ferita troppo grande per il suo esile fianco; e scorre sulla tomba di Kemmerich, scorre sui nostri cuori.”
“E’ penoso uccidere un singolo pidocchio, quando se ne hanno addosso centinaia. Le bestiole sono piuttosto dure e alla lunga diventa noioso quel perpetuo schiacciarle con le unghie.”
“Di tutta questa roba non ricordiamo granché. Vero è che non ci è servita a nulla. A scuola invece nessuno ci ha insegnato come si accenda una sigaretta sotto la pioggia e il vento, come si faccia prendere fuoco a un fascio di legna bagnata; oppure anche che la baionetta a uno conviene cacciargliela nella pancia, perché lì non resta conficcata come tra le costole.”
“…vorrei, quando sento parlare di pace, che se fosse davvero così, vorrei fare qualcosa di straordinario, e il solo pensiero mi dà alla testa. Qualcosa, capisci, per cui valga la pena essere stati qui, tanto tempo nel fango. ma non riesco a immaginare niente. Quello che mi sembra possibile – professione, studi, stipendio, eccetera – mi dà nausea: tutta roba che c’era già prima, ne ho schifo. Non trovo nulla, Albert.
E improvvisamente tutto ciò mi sembra così vuoto e desolante.”
E’ il destino comune della nostra generazione.
Albert sintetizza il tutto: La guerra ci ha guastati per sempre.
ha ragione: non siamo più giovani, non ci interessa più dare l’assalto al mondo. Siamo dei profughi, fuggiamo da noi stessi. Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo e l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro. La prima granata ci ha colpiti al cuore. Siamo esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non ci crediamo più. Crediamo nella guerra.”
“Questo sì, lo abbiamo imparato: giocare a carte, bestemmiare e fare la guerra. Poco, a vent’anni… Troppo, a vent’anni.”
“L’artiglieria del fronte avvolge del suo rombo il nostro rifugio. La luce della fiamma tremola sui nostri volti, le ombre danzano sulle pareti. Ogni tanto giunge una sorda detonazione, e la capanna trema. Bombe dagli aerei. Una volta udiamo grida soffocate: una baracca deve essere stata colpita in pieno.
“Così ce ne stiamo seduti l’uno di fronte all’altro, io e Kat, due soldati in giubbe logore intenti ad arrostire un’oca in piena notte. Non parliamo molto; eppure abbiamo l’uno per l’altro maggiori attenzioni di quante credo possano averne due innamorati. Siamo due uomini, due minuscole scintille di vita, e fuori è notte e regna la morte. Noi le sediamo accanto, minacciati e nascosti, le nostre mani sono coperte di grasso, nei nostri cuori ci sentiamo vicini e l’ora è come il luogo: luci e ombre delle nostre sensazioni oscillano qua e là con la fiamma del nostro fuocherello.”
“Un piccolo soldato e una voce benevola, e se gli faceste una carezza, forse non vi capirebbe più: ha gli scarponi ai piedi e il cuore pieno di terra; e marcia così, e ha tutto dimenticato fuorché il marciare. Non sono forse fuori quelli all’orizzonte, e un paesaggio così quieto che gli viene voglia di piangere, al soldato? Non ci sono forse là immagini che lui non ha perduto perché non le ha mai possedute? Immagini che lo turbano, ma che per lui sono passate via? Non sono forse là i suoi vent’anni?”
“La prima linea è una gabbia in cui si attende nervosamente ciò che sta per avvenire. Siamo stesi sotto la traiettoria incrociata delle granate, nella tensione dell’ignoto. Sopra di noi sta sospeso il caso. Quando arriva un colpo tutto quello che posso fare è ripararmi la testa; dove cadrà non posso saperlo con precisione, né posso intervenire.”
“Per puro caso posso essere colpito e per puro caso rimanere in vita. In un rifugio a prova di bomba posso essere schiacciato e allo scoperto posso resistere incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. I soldati rimangono in vita soltanto per casualità; perciò ciascuno crede e ha fiducia nel caso.”
“Ma arriva l’alba senza che accada nulla. Solo quell’eterno rullare lontano che logora i nervi: convogli su convogli, autocarri su autocarri; che diavolo stanno concentrando? La nostra artiglieria li bersaglia di continuo, ma quel rumore non cessa mai, non cessa mai.”
“E’ mattina, e ora al fuoco delle artiglierie si mescola l’esplosione delle bombarde. E’ la cosa più folle, più impressionante che si possa pensare. Dove cadono, le bombarde creano una fossa comune.”
“E di nuovo bisogna aspettare, e aspettare… Durante la mattinata succede quello che già prevedevo. Una delle reclute ha una crisi. Da un pezzo mi ero accorto che digrignava i denti continuamente e serrava i pugni, e lo tenevo d’occhio. Li conosciamo bene, questi occhi disperati che sembrano schizzare dalle orbite! Solo in apparenza in queste ultime ore si era fatto più quieto: ma ora è crollato su se stesso come un albero marcio.”
“E’ un attacco di ansia da trincea, gli pare di soffocare e l’unico impulso è quello di uscire. Se lo lasciassimo fare, correrebbe allo scoperto senza ripararsi, chissà dove. Non sarebbe il primo.”
“Questo fuoco tambureggiante è troppo per i nostri poveri ragazzi: sono piombati direttamente dal deposito in questa carneficina che farebbe imbiancare i capelli anche a un anziano.”
“Un’altra notte. La tensione ci ha intontiti. E’ una tensione mortale, che come un coltello male affilato ci graffia di continuo lungo la schiena. Le gambe non reggono più, le mani tremano, il corpo è come una epidermide sottile tesa sopra un delirio faticosamente represso, sopra un urlo interminabile che sta per prorompere senza ritegno. Non abbiamo più né carne né muscoli, non osiamo più nemmeno guardarci in faccia per paura di qualcosa di imprevedibile. Così stringiamo le labbra… passerà… deve… forse la scampiamo.”
“Il fuoco tambureggiante è finito, dietro di noi invece si intensifica quello di sbarramento. Siamo all’attacco.”
“Siamo diventati belve pericolose: non combattiamo, ci difendiamo dall’annientamento.”
“Il fuoco si sposta di cento metri in avanti e subito balziamo fuori di nuovo. Accanto a me, a un caporale viene tagliata la testa di netto. Fa ancora alcuni passi avanti mentre il sangue gli zampilla dal colle come una fontana.”
“Oh, quel ritornare all’attacco! Si è giunti al riparo nelle posizioni di riserva, si vorrebbe penetrarvi carponi, sparire; e invece bisogna girarsi e ritornare indietro, nell’orrore! Se in questo momento non fossimo degli automi, rimarremmo sdraiati, esauriti, privi di volontà. Invece siamo trascinati nuovamente in avanti, privi di volontà eppure selvaggi folli e furiosi; vogliamo uccidere poiché quelli di là sono ora i nostri nemici mortali, e i loro fucili, le loro granate sono diretti contro di noi, e se non li sterminiamo, stermineranno noi.”
“E’ l’ora della benedizione. Arriva la notte, dai camminamenti scende la nebbia. Le buche sembrano riempirsi di misteri spettrali. Il bianco vapore striscia ovunque timoroso, prima di avere il coraggio di sormontare i parapetti. Poi, lunghe strisce si stendono di buca in buca.”
“Non c’è silenzio al fronte, e il dominio del fronte giunge così lontano che non ne usciamo mai. Anche nei depositi arretrati e nei quartieri di riposo il ronzio e il sordo brontolio del fuoco persistono nelle nostre orecchie. Non siamo mai così lontani da non sentirlo più.”
“Quelle cose care sono esistite, ma non torneranno mai più.”
“Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Saremmo lì, ma sapremmo viverci? Abbandonati come bambini, disillusi come anziani, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.”
“I miei pensieri non resistono senza un po’ di consolazione, senza un po’ di illusione, si confondono davanti alla nuda immagine della disperazione.”
“Le giornate sono calde, e i morti non hanno sepoltura. Non possiamo raccoglierli tutti, non sapremmo dove portarli. Alla fine li sotterrano le granate. Alcuni hanno le pance gonfie come palloni. Gorgogliano, ruttano e si muovono: è il gas di cui sono pieni.
Il cielo è azzurro e senza nubi. La sera è afosa, e dalla terra sale la calura. Quando il vento soffia dalla nostra parte, porta l’odore del sangue, greve, dolciastro, nauseabondo; questo miasma di morte delle trincee, che pare un misto di cloroformio e di putrefazione, ci causa malessere e vomito.”
“I topi ora ci lasciano in pace: sono andati più avanti e sappiamo bene perché. Diventano grossi: appena ne vediamo uno, lo mandiamo via a colpi di fucile.”
“I loro volti smorti e ossuti, con la barba come una lanugine, hanno l’atroce assenza di espressione dei bambini morti.”
“Fuoco tambureggiante, fuoco di interdizione, cortina di fuoco, bombarde, gas, carri armati, mitragliatrici, bombe a mano: sono parole, parole, ma racchiudono tutto l’orrore del mondo.
Abbiamo i volti incrostati di fango, i pensieri confusi, siamo stanchi morti.”
“Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio; vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via entrambi i piedi e che incespicano, sui moncherini feriti, fino alla buca più vicina; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro le ginocchia fracassate; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro gli intestini che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta con i denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita giunge al termine. Ma quel pezzetto di terra sconvolta sul quale stiamo viene mantenuto contro i nemici più forti di noi: abbiamo ceduto solo poche centinaia di metri. Ma per ogni metro c’è un morto.”
“Tutto è questione di abitudine, anche la trincea.”
“Finché siamo qui in guerra, ogni giornata al fronte, a mano a mano che termina, precipita come una pietra nel profondo di noi stessi, troppo pesante per poterci riflettere subito. Se lo facessimo, ciascun giorno che finisce ci ucciderebbe; ho sempre osservato che l’orrore si può sopportare finché lo si evita semplicemente: ma uccide, quando ci si ripensa.”
“E io so che tutto ciò che affonda in noi, come una pietra, finché siamo in guerra, risalirà alle nostre menti a guerra finita, e solo allora comincerà la resa dei conti sulla vita e sulla morte.
I giorni, le settimane, gli anni trascorsi in trincea ritorneranno, e i nostri camerati morti si alzeranno e marceranno al nostro fianco. Avremo la mente limpida e uno scopo; e così marceremo, con i nostri morti accanto a noi e con gli anni al fronte dietro le nostre spalle: ma contro di chi, contro chi?”
“Sopra le nostre teste ondeggia una densa nuvola di fumo. Che cosa sarebbe il soldato, senza tabacco!”
“E’ terribile, vero, laggiù, Paul?
Mamma, che cosa dovrei risponderti? Non capirai, non potrai mai capire. Non devi capire. Mi chiedi se è terribile, mamma. Io scuoto la testa e rispondo: No, mamma, non tanto. Siamo in tanti, non è così male…”
“Che ne sarebbe di noi, se avessimo chiara la visione di ciò che avviene laggiù!”
“Oggi mi accorgo che senza rendermene conto mi sono logorato. Non mi sento più a mio agio qui; è un mondo estraneo. Alcuni mi interrogano, altri noi, ma in faccia a questi ultimi si vede che se ne fanno un merito; anzi qualcuno dice, con aria da saggio, che non si deve parlare. E’ tutta ostentazione.”
“Come può esistere tutto ciò, mentre laggiù le schegge sibilano sui camminamenti e i razzi solcano il cielo, e i feriti sono portati via sui teli da tenda e i compagni si rannicchiano nelle trincee?”
“I libri sono uno accanto all’altro. Li riconosco, ricordo l’ordine in cui li ho disposti. Con lo sguardo li supplico: parlatemi – prendetemi con voi – prendimi con te, vita di un tempi – vita spensierata, bella – riprendimi…
E aspetto, aspetto.”
“Mi alzo e, stanco, guardo fuori dalla finestra. Poi prendo in mano uno dei libri e lo sfoglio con l’intenzione di leggere. ma subito lo ripongo e ne prendo un altro. Vi sono dei brani sottolineati. Cerco, sfoglio, prendo sempre nuovi libri; ormai nei ho un mucchio vicino a me. Ne prendo altri, affannosamente, e carte, quaderni, lettere.”
“Che cos’è la licenza? Una sosta che rende poi tutto più doloroso. Già ora vi si mescola il pensiero dell’addio. Mia madre mi guarda in silenzio – conta i giorni, lo so – ogni mattina è più triste. Un altro giorno in meno. Ha nascosto il mio zaino perché non vuole che le ricordi la mia partenza…”
“Quando si sono visti tanti morti, non si riesce più a comprendere un così grande dolore per un morto solo.”
“Ah, mamma mamma! Per te sarò sempre un bambino… Perché non posso appoggiare la testa sul tuo grembo, e piangere? Perché devo essere sempre il più forte e il più controllato, mentre vorrei anch’io una volta piangere e farmi consolare? Sono davvero poco più che un bambino, i miei calzoni corti stanno ancora appesi nell’armadio, è passato così poco tempo: perché tutto ciò se ne è andato per sempre?”
“Quelle voci, quelle poche parole sommesse, quei passi nella trincea mi strappano di colpo all’orribile solitudine, alla paura di morire alla quale stavo per cedere. Sono più che la mia vita, quelle voci: sono più che l’amore e l’ansia materna; sono la cosa più fortificante e protettrice che vi sia: sono le voci dei miei camerati.”
“Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani proprio come noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come le nostre per noi, e che abbiamo lo stesso terrore e la stessa morte e la stessa sofferenza… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico?”
“Dev’essere tutto falso e inconsistente, se migliaia di anni di civiltà non sono nemmeno riusciti a impedire che scorressero questi fiumi di sangue, che esistessero migliaia di queste prigioni di tortura. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra.
Io sono giovane, ho vent’anni, ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore e la insensata superficialità unita a un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo. E con me lo vedono tutti gli altri uomini della mia età, da questa parte e da quell’altra del fronte, in tutto il mondo. Lo vede e lo vive la mia generazione. Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a chiedere conto? Che cosa si aspettano da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per anni e anni la nostra occupazione è stata quella di uccidere; è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte. Che accadrà dopo? Che ne sarà di noi?”
“Estate 1918: mai la vita, pure in questa sua così miseranda parvenza, ci è sembrata più desiderabile di ora. papaveri rossi sui prati intorno ai nostri baraccamenti, lucidi insetti sui fili d’erba, calde serate nelle camere semibuie e fresche, alberi neri e misteriosi nel crepuscolo, stelle e fluire di acque, sogni e lunghi sonni. Oh vita, vita, vita!”
“Se fossimo tornati a casa nel 1916, dal dolore e falla forza delle nostre esperienze si sarebbe sprigionata la tempesta. Ritornando ora, siamo stanchi, depressi, consumati, privi di radici, privi di speranze. Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio. E neppure ci potranno capire.”
“Mi alzo: sono contento. Vengano i mesi e gli anni, non mi porteranno via più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranza che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha fatto attraversare questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so. Ma finché dura, si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell’essere che nel mio interno dice “io”.